Ripensare l'Europa
Almeno un merito alla crisi economica che oggi squassa l’Unione
Europea va riconosciuto: quello di obbligare a ripensare dalle
fondamenta il modo in cui essa è nata e cresciuta. Solo così sarà
possibile trovare una via d’uscita. Ma è un compito che tocca alle
opinioni pubbliche, agli studiosi e agli osservatori indipendenti, dal
momento che le leadership politiche europee lo evitano accuratamente,
impegnate come sono ad impiegare il proprio tempo unicamente nel
rimbalzare da un vertice all’altro, indicato ogni volta come risolutivo e
ogni volta, però, destinato a non risolvere nulla.
Ripensare la costruzione europea, dunque. Oggi è chiaro, ad
esempio, che alla sua origine vi fu un atto di temeraria cecità
geopolitica. La conclusione della II Guerra mondiale e il sequestro da
parte dell’Unione Sovietica dell’intera parte orientale del continente
furono l’elemento decisivo che portò a considerare Italia, Francia,
Germania e Benelux come realtà omogeneamente «europee ». In verità esse
lo erano solo per un motivo: perché tutte erano allora gravitanti nella
sfera d’influenza degli Stati Uniti, non per altro. Solo la riconosciuta
egemonia americana da parte delle loro classi dirigenti dell’epoca
conferiva insomma a quell’organismo un carattere «occidentale ».
La concezione dell’Europa alla base dei Trattati di Roma
cancellava di fatto almeno due aspetti decisivi: l’esistenza da un lato
di un’«Europa mediterranea » (allora soltanto l’Italia, ma che con
Spagna, Grecia, Portogallo, Malta e Cipro sarebbe poi divenuta una
realtà di rilievo), e dall’altro di un’«Europa tedesca » incentrata
sulla Germania ma in realtà estesa dalla Scandinavia all’Olanda,
all’Austria, alla Slovenia. Quella concezione cancellava l’esistenza di
due Europe con storie, società, tradizioni assai diverse. Due Europe da
secoli unite sì da valori comuni, ma quasi quanto divise da conflitti:
con la differenza, però, che i primi erano patrimonio quasi esclusivo di
ristrette élite, mentre i secondi, invece, avevano radici vastissime e
profonde. Due Europe, la cui esistenza effettiva la Comunità prima (la
Cee) e la Unione dopo (la Ue) sono riuscite ad occultare, per anni e
anni, servendosi sia di un fragile mantello ideologico — l’«Occidente» —
sia di una apparentemente più solida prospettiva generale, l’economia:
tutta l’area comunitaria s’identificava infatti con il capitalismo, era
interessata al suo sviluppo, si riconosceva nelle sue regole.
Ma sia il mantello ideologico che la prospettiva generale
appaiono oggi in frantumi: finito lo scontro Usa-Urss, l’«Occidente» è
divenuto una categoria sempre più evanescente; mentre l’economia,
sottoposta alle tensioni della globalizzazione, si sta rivelando un
fattore assai più di scollamento che di unificazione. E così oggi
riprendono il sopravvento la geografia, la politica e con esse la
storia. Sulla finta capitale Bruxelles riprendono il sopravvento le
capitali vere del continente: Berlino, Parigi, Madrid, Roma. E torna a
prevalere una diversità antica. Oggi, infatti, riappare in tutta la sua
drammatica evidenza la diversità tra l’«Europa tedesca » e l’«Europa
mediterranea » (con la Francia a metà tra le due); a complicare
ulteriormente le cose ci si aggiunge pure, grazie al dissennato
allargamento a Est, la radicale diversità dell’«Europa balcanica».
Qui da noi, nell’«Europa mediterranea », la modernità
democratica è nata assai di recente dovendo fare i conti non solo con
passati fascistico-autoritari — dalla Grecia alla Spagna, all’Italia
appunto—ma con società dai caratteri per più versi ostili ovvero
estranei ai suoi valori, nelle quali dominavano antiche e diffuse
povertà, una debole cultura civica, legami personali soverchianti e
insieme l’individualismo più restio, particolarismi tenaci, una
tradizione di governo lontana dallo Stato di diritto. Tutti questi
elementi hanno consentito, sì, che i meccanismi consensualistico-
democratici si affermassero, ma al prezzo di un ruolo crescente e
pervadente dell’intermediazione politica. A Sud delle Alpi e dei
Pirenei, per ottenere successo, la democrazia è stata spinta a diventare
fin dall’inizio, e sempre di più, una democrazia dei benefici, delle
elargizioni, delle sovvenzioni, degli stipendi: a diventare una
democrazia della spesa (e quindi, alla lunga, del debito) alimentando
uno spirito pubblico conseguente.
Così come le sue classi politiche sono state progressivamente
spinte a occupare spazi collettivi di ogni tipo (spesso addirittura a
crearli) facendosi forti per l’appunto delle risorse di cui avevano la
disponibilità. La bancarotta della Grecia, la drammatica crisi
finanziaria esplosa contemporaneamente in molte, importanti autonomie
locali di Italia e Spagna, unitamente all’immane debito pubblico e
privato di entrambi i Paesi, sono di certo un fatto di malcostume e di
leggerezza dei loro governanti. Ma non solo. Rappresentano anche la
realtà di una condizione storica: della condizione storica in cui si è
affermata la democrazia in questa parte del continente.
È ovvio che i «mercati» non se ne curino più di tanto. È invece
sbagliato che noi, cittadini dell’Europa mediterranea, a cominciare da
noi italiani, non facciamo nulla per spiegare queste cose ai nostri
amici europei, ai nostri amici tedeschi: che per esempio non impegniamo
in questo senso la nostra diplomazia con un’appropriata azione
culturale. Sia chiaro: non per invocare impossibili indulgenze (con la
mafia e la corruzione, per esempio, dobbiamo solo impegnarci più che mai
a farla finita), ma per ricordare che in Europa la democrazia non è una
pianta autoctona. Per radicarla c’è stato bisogno qualche volta di un
deficit di duemila miliardi, altrove il prezzo è stato Auschwitz, quasi
dappertutto è stato necessario il vento d’oltreoceano. I conti
dell’Europa con la democrazia non cominciano con la Cee o con la Ue.
Vanno fatti su archi cronologici un po’ più ampi, perché vanno fatti con
la storia. E allora forse si vedrebbe che ad averli davvero in ordine
quei conti siamo in pochissimi. (Tratto da Il Corriere della Sera, 25 luglio 2012)
Ernesto Galli della Loggia
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