Meister Eckhart, alle origini del pensiero tedesco
Professore di scuola e maestro di vita, Meister Eckhart fu anche un
amministratore accorto e uomo molto potente del suo ordine, di cui
ricoprì le cariche più prestigiose. La constatazione di un aspetto
politico ancora poco considerato nella vita del Domenicano induce a
rivedere l'immagine di un Eckhart troppo spesso stilizzato come un
"mistico" fuori dalla realtà. In queste pagine si cercherà di
ricostruire il progetto culturale e religioso che il maestro domenicano
portò avanti con strumenti diversi (lezioni universitarie, trattati e
commentari dotti in latino, prediche redatte in latino e in volgare), in
sedi diverse (Università, all'interno e all'esterno dell'Ordine
domenicano), ma caratterizzato da una notevole organicità. (dalla quarta di copertina).
Vi propongo un breve estratto della monografia di Alessandra Beccarisi su Meister Eckahrt, che, da numerosi studiosi, è considerato il padre della lingua e della cultura tedesca.
Necessità e Libertà: i Discorsi. La riflessione cominciata a Parigi circa la necessità di una genealogia della morale della virtù viene ripresa da Eckhart in una delle opere più importanti della sua produzione in volgare, e al contempo anche una delle meno considerate. Lo stesso Kurt Flasch la liquidava come un’opera senza ambizioni speculative.
Considerati per molto tempo una tradizionale esortazione alle virtù monastiche o come la delineazione di una nuova etica dell’interiorità, in ogni caso mai come opera propriamente filosofica, i Discorsi, contrariamente alle “opere accademiche”, furono redatti e messi in circolazione da Eckhart stesso. ...
I Discorsi possono essere considerati una rifondazione dell’etica alla luce della scoperta di un principio dell’umano che per sé stesso sia norma e criterio dell’agire. Attraverso la messa in discussione della banalità del vivere quotidiano, Eckhart costringe i propri uditori a riflettere sulle forme della prassi religiosa al fine di prendere coscienza del vero senso del loro fare (agire). Non è infatti il cosa o il come delle opere che dice qualcosa della loro bontà, quanto piuttosto il loro fondamento. I discorsi di Eckhart, dunque, non vertono tanto sulla pratica, quanto piuttosto sul fondamento di essa.
Considerati per molto tempo una tradizionale esortazione alle virtù monastiche o come la delineazione di una nuova etica dell’interiorità, in ogni caso mai come opera propriamente filosofica, i Discorsi, contrariamente alle “opere accademiche”, furono redatti e messi in circolazione da Eckhart stesso. ...
I Discorsi possono essere considerati una rifondazione dell’etica alla luce della scoperta di un principio dell’umano che per sé stesso sia norma e criterio dell’agire. Attraverso la messa in discussione della banalità del vivere quotidiano, Eckhart costringe i propri uditori a riflettere sulle forme della prassi religiosa al fine di prendere coscienza del vero senso del loro fare (agire). Non è infatti il cosa o il come delle opere che dice qualcosa della loro bontà, quanto piuttosto il loro fondamento. I discorsi di Eckhart, dunque, non vertono tanto sulla pratica, quanto piuttosto sul fondamento di essa.
Solo quando si è divenuti consapevoli del fondamento del proprio fare, è possibile discernere tra pratiche giuste e ingiuste. Il tema centrale dei Discorsi, infatti, non è tanto l’obbedienza o il distacco, come spesso ritenuto, quanto il discernimento tra un comportamento autenticamente virtuoso e uno invece falso. ...
Rifondare l’etica non significa ancorarla a un nuovo sistema di norme che sostituisca il precedente, ma piuttosto ricondurla alla sua origine, ovvero all’uomo come essere divino. La strategia argomentativa di Eckhart è dunque tutta qui: mostrare come si diventa ciò che si è, ovvero divini: «L’uomo deve passare attraverso la presenza divina e attraverso la forma del suo amato Dio essere trasformato e in lui essenziato». Soltanto prendendo coscienza del fondamento di una condotta
Rifondare l’etica non significa ancorarla a un nuovo sistema di norme che sostituisca il precedente, ma piuttosto ricondurla alla sua origine, ovvero all’uomo come essere divino. La strategia argomentativa di Eckhart è dunque tutta qui: mostrare come si diventa ciò che si è, ovvero divini: «L’uomo deve passare attraverso la presenza divina e attraverso la forma del suo amato Dio essere trasformato e in lui essenziato». Soltanto prendendo coscienza del fondamento di una condotta
autentica è possibile valutare i propri comportamenti, sottoponendoli al vaglio della ragione: «In tutte le sue opere e in tutte le sue cose l’uomo deve utilizzare con accortezza la sua ragione e deve avere in
ogni cosa una coscienza razionale di se stesso e della propria interiorità e cogliere in tutte le cose Dio nel modo più elevato, per quanto è possibile». Cogliere Dio non significa, dunque, abbandonarsi alla contemplazione mistica, ma esercitare nel modo più rigoroso possibile la ragione, per discernere correttamente le proprie azioni e vederle sotto la giusta prospettiva. Ritorna qui molto chiaramente un’idea che avevamo incontrato già nel sermone di Pasqua del 1294: conoscere sé stessi è il più alto e proficuo esercizio razionale. ...
ogni cosa una coscienza razionale di se stesso e della propria interiorità e cogliere in tutte le cose Dio nel modo più elevato, per quanto è possibile». Cogliere Dio non significa, dunque, abbandonarsi alla contemplazione mistica, ma esercitare nel modo più rigoroso possibile la ragione, per discernere correttamente le proprie azioni e vederle sotto la giusta prospettiva. Ritorna qui molto chiaramente un’idea che avevamo incontrato già nel sermone di Pasqua del 1294: conoscere sé stessi è il più alto e proficuo esercizio razionale. ...
Da questa analisi, che non propone comodi compromessi e facili scorciatoie, emerge l’uomo nuovo, ovvero l’uomo libero. Non si tratta però di uno stato che si acquisisce una volta per tutte, ma di un’arte che si impara e in cui occorre esercitarsi: «L’essere umano deve imparare a passare attraverso tutte le cose, a cogliere in esse il suo Dio, e riuscire a formarlo in sé fortemente secondo un modo essenziale.
Nell’identico modo di chi vuole imparare a scrivere: credetemi, se costui deve impadronirsi dell’arte (della scrittura), deve esercitarsi molto e frequentemente nella scrittura, per quanto duro e faticoso sia, e per quanto impossibile gli possa sembrare».
La prima forma di prassi religiosa che Eckhart prende in considerazione è una tipica e fondamentale virtù monastica, ovvero l’obbedienza. Essa è l’unica delle tre virtù del monaco (povertà, obbedienza,
castità) a cui si fa esplicitamente riferimento durante la cerimonia di consacrazione del novizio, il quale promette obbedienza a Dio, alla Madonna e al suo superiore, alle cui mani egli si affida. Quando, dunque, Eckhart apre il suo trattato riferendosi all’obbedienza egli si richiama a un’esperienza fondamentale, di cui i suoi ascoltatori non potevano non cogliere il senso. Ma contemporaneamente il predicatore aggiunge che non parlerà dell’obbedienza in generale, ma della vera obbedienza.
Qual è dunque la vera obbedienza? ...
Nell’identico modo di chi vuole imparare a scrivere: credetemi, se costui deve impadronirsi dell’arte (della scrittura), deve esercitarsi molto e frequentemente nella scrittura, per quanto duro e faticoso sia, e per quanto impossibile gli possa sembrare».
La prima forma di prassi religiosa che Eckhart prende in considerazione è una tipica e fondamentale virtù monastica, ovvero l’obbedienza. Essa è l’unica delle tre virtù del monaco (povertà, obbedienza,
castità) a cui si fa esplicitamente riferimento durante la cerimonia di consacrazione del novizio, il quale promette obbedienza a Dio, alla Madonna e al suo superiore, alle cui mani egli si affida. Quando, dunque, Eckhart apre il suo trattato riferendosi all’obbedienza egli si richiama a un’esperienza fondamentale, di cui i suoi ascoltatori non potevano non cogliere il senso. Ma contemporaneamente il predicatore aggiunge che non parlerà dell’obbedienza in generale, ma della vera obbedienza.
Qual è dunque la vera obbedienza? ...
L’obbedienza però è anche uno dei tre voti del frate, anzi secondo Tommaso d’Aquino è il primo, il più importante degli impegni. Nell’obbedienza, dice Tommaso, il frate offre a Dio qualcosa di più essenziale del suo corpo (castità) o dei suoi averi (povertà): nell’obbedienza il frate offre a Dio la propria volontà.
Giustamente Michel Foucault, in Sovranità, territorio, popolazione, definiva l’obbedienza cristiana l’obbedienza integrale di un individuo verso un altro individuo. Colui che obbedisce si dà completamente a qualcun altro e si sottomette interamente alla sua volontà. Si istituisce così un rapporto di servitù integrale. Colui che obbedisce sottomettendosi è chiamato subditus, ovvero colui che si è votato, che si è dato a qualcun altro e si trova perciò interamente a sua disposizionee sottomesso alla sua volontà. Questo però non vuol dire che l’obbedienza sia “assurda”, ovvero irragionevole, perché, come abbiamo visto, per Tommaso essa è una condizione naturale dell’uomo in quanto tale.
Giustamente Michel Foucault, in Sovranità, territorio, popolazione, definiva l’obbedienza cristiana l’obbedienza integrale di un individuo verso un altro individuo. Colui che obbedisce si dà completamente a qualcun altro e si sottomette interamente alla sua volontà. Si istituisce così un rapporto di servitù integrale. Colui che obbedisce sottomettendosi è chiamato subditus, ovvero colui che si è votato, che si è dato a qualcun altro e si trova perciò interamente a sua disposizionee sottomesso alla sua volontà. Questo però non vuol dire che l’obbedienza sia “assurda”, ovvero irragionevole, perché, come abbiamo visto, per Tommaso essa è una condizione naturale dell’uomo in quanto tale.
Rispetto a questo stato di obbedienza naturale, proprio di ogni uomo, il monaco si impegna in modo più radicale: l’obbedienza del monaco, l’obbedienza perfetta, consiste nella rinuncia integrale alla propria volontà. Il fine del monaco è la mortificazione della sua volontà, in modo che non ci sia altra volontà che quella di non avere volontà. L’obbedienza del monaco, in ultima analisi, non ha un fine, ma è fine a sé stessa: si obbedisce per essere obbedienti e giungere così a uno stato di obbedienza.
Con i suoi Discorsi Eckhart si richiama evidentemente a questa tradizione secolare codificata dalla Summa theologiae di Tommaso d’Aquino. Egli se ne distacca però immediatamente e in un punto essenziale. Il discrimine è proprio l’aggettivo vera. Nei Discorsi infatti l’obbedienza non è un concetto giuridico-istituzionale, che sancisce rapporti di subalternità di un inferiore (il subditus) nei confronti del suo superiore, non è nemmeno semplicemente una virtù, ma l’applicazione di una legge metafisica.
Il Processo. Se sulla vita di Eckhart abbiamo pochissime e frammentarie
notizie, siamo invece sorprendentemente ben informati riguardo l’evento
più clamoroso della biografia del domenicano, ovvero il processo
per eresia, iniziato a Colonia nel 1326. La fortuita sopravvivenza di un
documento conservato nell’archivio di Soest, il cosiddetto Scritto di
difesa (Rechtsfertigungsschrift), ha permesso di ricostruire gli
eventi processuali di cui Eckhart fu protagonista e che condussero alla
condanna nel 1326, ad Avignone, di alcune tesi considerate eretiche.
Tra il 1323 e il 1325 il conflitto tra papa Giovanni XXII e Ludovico il Bavaro arriva al suo culmine. In un breve periodo di tempo si susseguono una serie di processi, a cui il Papa impone di dare la massima visibilità, che nel 1324 portano alla scomunica del re bavarese. Non tutti i rappresentanti del clero e degli ordini mendicanti rispettano la prescrizione del papa: tra i francescani il contrasto tra Giovanni XXII e Ludovico il Bavaro diventa lotta ideologica sulla povertà di Cristo. Anche i domenicani, tradizionalmente colonna portante del papato, devono decidere da che parte stare. In Germania, in particolare nella Teutonia, la situazione è critica: il 27 maggio 1325 il capitolo generale dei domenicani riunito a Venezia decide di prendere dei provvedimenti contro alcuni confratelli tedeschi che non hanno dato la sufficiente pubblicità al processo del papa contro Ludovico il Bavaro.
Tra il 1323 e il 1325 il conflitto tra papa Giovanni XXII e Ludovico il Bavaro arriva al suo culmine. In un breve periodo di tempo si susseguono una serie di processi, a cui il Papa impone di dare la massima visibilità, che nel 1324 portano alla scomunica del re bavarese. Non tutti i rappresentanti del clero e degli ordini mendicanti rispettano la prescrizione del papa: tra i francescani il contrasto tra Giovanni XXII e Ludovico il Bavaro diventa lotta ideologica sulla povertà di Cristo. Anche i domenicani, tradizionalmente colonna portante del papato, devono decidere da che parte stare. In Germania, in particolare nella Teutonia, la situazione è critica: il 27 maggio 1325 il capitolo generale dei domenicani riunito a Venezia decide di prendere dei provvedimenti contro alcuni confratelli tedeschi che non hanno dato la sufficiente pubblicità al processo del papa contro Ludovico il Bavaro.
All’ordine del giorno vi è però anche un’altra questione:
nella provincia della Teutonia la predicazione in volgare di alcuni
domenicani a beneficio di persone semplici e indotte (rudes et vulgares)
rischia di indurre gli uditori in errore. Per questo il capitolo
generale riunito a Venezia decide di inviare in Germania, come vicario dell’ordine,
Gervasius di Anger della provincia francese. Papa Giovanni XXII,
tuttavia, forse non soddisfatto della risoluzione del capitolo
generale, decide di intervenire direttamente nella questione e soltanto due mesi
dopo nomina come suoi vicari Benedetto da Como e Nicola di Strasburgo,
perché si rechino in Germania. Da una lettera spedita dal papa al
maestro generale dell’ordine domenicano, Barnaba da Vercelli,
conosciamo gli incarichi dei due vicari: investigare, correggere e
riformare, ove necessario, rimuovendo dall’incarico o trasferendo tutti coloro che non
rispettino la disciplina dell’ordine.
Nel documento non si fa riferimento ad alcun nome preciso,
ma con una certa diplomazia il papa indica un solo obiettivo:
benché non sia possibile rimuovere il priore provinciale della
Teutonia, i vicari devono raccogliere tutte le informazioni possibili contro di lui e
consegnarle al maestro dell’ordine e ai diffinitores, ovvero ai membri
del consiglio, in modo che essi possano prendere la decisione
più opportuna. Mi sembra innegabile che il papa riveli un personale
pregiudizio nei confronti del provinciale in carica nel 1325, Enrico di
Grüningen. Un tale interesse da parte del papa è stato sinora poco
considerato, ma si può spiegare soltanto sullo sfondo degli avvenimenti
politici di quegli anni, come mostra un documento più tardo rispetto agli
eventi che stiamo raccontando, datato 1327. Questo interesse giocherà
un ruolo nell’affaire Eckhart.
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