Il futuro dell'Euro: è il momento decisivo

Oggi vi propongo due articoli apparsi negli ultimi giorni su Il Corriere della Sera e il Financial Times. Il primo è l'editoriale di Angelo Panebianco, La sovranità dei debitori, che pone, tra gli altri, un interessante confronto tra gli stati debitori dell'area euro e la Sicilia, vicino al fallimento:


Nella sua storia il processo di integrazione europea ha combinato il nobile disegno di unificare il Continente, sia pure in un futuro indefinito, con misure pragmatiche, molto concrete, volte a risolvere i problemi man mano che si presentavano. È stata, fino alla crisi dell'euro, una storia di successo. Procedere, come si è sempre fatto, «per tentativi ed errori», e senza eccessi di politicizzazione dei problemi (che avrebbero scatenato conflitti), ha sempre aiutato l'integrazione. Almeno fino ad oggi. Anche la nascita dell'euro era avvenuta in questo modo: «Ci si imbarca e poi si vede». Si sperava che l'unificazione monetaria potesse trascinarsi dietro anche decisivi passi avanti sul piano dell'integrazione politica. Ma nessuno sapeva quando quei passi sarebbero stati compiuti. La crisi dell'euro ha cambiato tutto. Perché non è possibile uscirne con il tradizionale pragmatismo europeo, non è possibile superarla senza scelte di alto profilo politico. In gioco, niente di meno, ci sono la sovranità statale e i principi (e le procedure) della democrazia rappresentativa.
Il Financial Times ha ospitato ieri l'autorevole parere di Otmar Issing, già membro del Consiglio della Banca centrale europea. In sintonia con l'opinione pubblica del suo Paese, Issing osserva che chiedere ai contribuenti tedeschi di ripianare, attraverso gli eurobond e in altre forme, i debiti dei Paesi dell'Europa mediterranea senza avere il diritto di esercitare uno stretto controllo sul modo in cui vengono impiegati i loro soldi, violerebbe il principio democratico del no taxation without representation (niente tasse se i cittadini-contribuenti non hanno il diritto di scegliere i rappresentanti). Perché mai i contribuenti tedeschi dovrebbero sborsare denaro senza che esistano i meccanismi per assicurare loro il controllo sul modo in cui quei soldi verranno spesi? Lungi dal favorire l'integrazione, ciò farebbe sorgere in Germania, secondo Issing, un risentimento così forte da portare alla dissoluzione dell'Unione. Piaccia o non piaccia, è una opinione «pesante» che non può essere ignorata. Si può però far osservare a Issing che i tax payers italiani potrebbero porsi un analogo interrogativo, di segno rovesciato, di fronte alla circostanza di una Germania che attualmente si finanzia a tassi negativi. Ma per capire la posizione dei tedeschi, d'altra parte, ci basta ricordare ciò che è accaduto poche settimane fa in Italia: di fronte a un quadro che si riteneva drammatico dei conti della Sicilia non si sono subito levate voci che chiedevano un commissariamento della Regione Siciliana da parte del governo? E che altro significava se non l'indisponibilità di molti contribuenti a continuare a pagare, senza poter esercitare alcun controllo, per le spese siciliane?
L'esempio siciliano, naturalmente, riguarda il rapporto fra chi paga e chi spende all'interno di uno Stato nazionale. Nel caso europeo, la questione è ulteriormente complicata dall'assenza di uno Stato unitario. Ma, per l'essenziale, il problema è identico: chi paga deve essere titolare di un diritto di controllo sulle spese. Non si esce dalla crisi se non si trova il modo di conciliare due esigenze: garanzie per i tedeschi sull'impiego dei loro soldi, garanzie per gli altri che l'inevitabile perdita di sovranità che si prospetta non verrà usata dai più forti (come nel caso dei finanziamenti negativi) per indebolire ulteriormente i più deboli a proprio vantaggio. È un doppio e incrociato sistema di garanzie, in altri termini, quello che deve essere costruito. Non solo le rivoluzioni, ma anche le unificazioni incruenti non sono pranzi di gala. (Tratto da Il Corriere della Sera, 31. luglio 2012)


Il secondo articolo è di Otmar Issing, già membro del Consiglio della Banca Centrale Europea, Europe's political union is an idea worthy of satire, uscito sul Financial Times il 29 luglio:

Recent history, and not just that of Germany, teaches us that the idea of sustaining an economic and monetary union over time without political union is a fallacy.” Has former German chancellor Helmut Kohl, who gave this warning in 1991, been proven right by the eurozone crisis? Should Europe now seek political union? 
Forming such a union implies nothing less than the end of the nation state. A European government would have to be created with powers of taxation and public spending, a corresponding European parliament and so on. There are powerful arguments why “Europe” – whatever this means and how many countries might be included – should have this ambition. However, to base the argument for integration primarily on saving monetary union is anything but convincing. And it is more than strange when foreign politicians and experts are pressing eurozone states to give up national sovereignty, out of fear that a collapse of monetary union might have severe consequences for their economies. Juvenal would have said: Difficile est satiram non scribere (It is difficult not to write a satire).
But, independent of any answer to these questions, political union is impossible to achieve within a few years. It cannot be a means of crisis management. And here comes the dangerous part: any proposals, for example, to extend the amount and scope of financial support mechanisms premised on further integration in the future. Promising later action against requests for more money now does not look like a credible strategy – quite the opposite. This approach would severely undermine the idea of establishing political union.
Take eurozone bonds, which would lead to higher interest rates for government bonds in countries of (so far) good reputation in financial markets. The implicit transfer of taxpayers’ money would be a violation of the fundamental democratic principle of no taxation without representation. This is true for all forms of debt mutualisation. This is hardly the proper way to create a democratic European Union.
Or take the idea of banking union. There can hardly be any doubt that a monetary union should be accompanied by integrated financial markets. The concept of a banking union is based on European competences for bank supervision, for a resolution scheme and for deposit insurance. However, the latter two elements imply a need for a fiscal backing and therefore cannot be separated from fiscal and eventually political union. A clean-up of banking systems would have to precede the introduction of a European resolution fund and deposit insurance. Otherwise funds collected so far in national schemes would be socialised. This would not only undermine efforts by weak – to put it mildly – banks to break with the past, but would create an uproar in countries in which depositors would be effectively expropriated. This is hardly a way to foster identification with Europe.
In 2009, the EU’s “de Larosière report” recommended that the European Central Bank become the home of macroprudential supervision (overall financial stability) but warned against giving it the power of microprudential supervision (individual banks’ health). Besides administrative problems, we (I was a member of the group) saw potential conflicts with the ECB’s fundamental task of monetary policy, namely price stability. “This could result in political pressure and interference, thereby jeopardising the ECB’s independence,” we wrote. Developments since the publication of the report have strengthened those concerns. Take the longer-term refinancing operations, which in effect worked as a rescue mechanism for weak banks. In such a context how credible would the ECB be as banking supervisor?
Political union is not the solution. All measures that implicitly pre-empt the establishment of political union are inconsistent and dangerous. They imply huge financial risks for a few member countries and could not only undermine honest efforts in the direction of political union, but also destroy the fundament on which such a process finally rests, namely the identification of the people with the European idea.
Is the collapse of the eurozone therefore unavoidable? This is a risk that can no longer be denied but there is a viable alternative. The eurozone is based on treaties and commitments that were unfortunately broken time and again with the consequence of a deep loss of credibility. Can confidence be restored? A monetary union of sovereign states cannot function without the principle of no bailout, which means that every country is responsible for its policies. Financial assistance must be based on strict conditionality and be given at interest rates that do not undermine the will to reform. As such, monetary union could survive without political union.
After so many disheartening experiences, is it not naive to expect that credibility for such a regime can be restored? Probably yes. But if trust in treaties and commitments cannot be restored, how credible are all the much more ambitious plans in the direction of political and banking union? It would be the peak of naivety to put the future of not only the eurozone, but also of Europe, on such shaky ground. (Tratto da Financial Times, 29. luglio 2012)
Ottmar Issing





Ubaldo Villani-Lubelli

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