Unione bancaria e federalismo: così l'Europa uscirà dalla crisi
La crisi dell’euro è grave, ma
diventa ancora più grave se viene raccontata come il risultato dell’errore
fatale che sarebbe stato fatto quando i governi dell’Unione misero il carro
davanti ai buoi e adottarono una moneta unica prima di avere creato il governo
che avrebbe dovuto dirigere e amministrare l’economia dell’Eurozona. Non si
resero conto della gravità dell’errore? Non capirono che si stavano avviando su
una strada inesplorata piena di rischi e trabocchetti? È possibile che persone
come Helmut Kohl, Jacques Delors, François Mitterrand, Carlo Azeglio Ciampi,
Romano Prodi e Tommaso Padoa- Schioppa siano colpevoli di una tale svista?
Forse sarà più facile uscire dalla crisi se riconosceremo che i fondatori
dell’euro, all’inizio degli anni Novanta, quando fu firmato il trattato di
Maastricht, erano consapevoli del rischio e avevano due buone ragioni per
tentare la sorte.
La prima fu la fine della Guerra
fredda. Sapevamo che la deflagrazione dell’Urss e il crollo dell’Impero
sovietico nell’Europa centro-orientale avevano radicalmente modificato lo
status della Germania. La Repubblica federale aveva annesso i territori della
Repubblica democratica tedesca e aveva ormai sulle sue frontiere orientali
alcuni Paesi che sarebbero diventati, verosimilmente, i suoi satelliti
economici. Non era più uno Stato di frontiera, attestato sul limes che separava
l’Occidente democratico dall’Oriente comunista. Non era più un Paese
vulnerabile e legato ai suoi alleati dalle esigenze della reciproca sicurezza.
Era nuovamente “Mitteleuropa”, con tutte le occasioni e tentazioni che quella
posizione geografica avrebbe comportato. Quando i maggiori avversari
dell’unificazione tedesca – nel continente, fra gli altri, François Mitterrand
e Giulio Andreotti – capirono che non era possibile evitarla, fu deciso che il
miglior modo per impedire la rinascita di una grande potenza imperiale fra il
Reno e l’Oder fosse quello di chiedere alla Germania un gesto fortemente
simbolico: la rinuncia alla sua sovranità monetaria. Non potevamo aspettare. Il
sacrificio andava consumato hic et nunc, qui e ora.
L’idraulico polacco. Vi è
una seconda ragione, non meno importante. La moneta unica avrebbe completato il
mercato unico e reso più facilmente sfruttabili tutte le straordinarie
occasioni che una grande area economica unificata avrebbe offerto alle economie
dell’Eurozona. Naturalmente la moneta non bastava. Occorreva anzitutto
completare il mercato unico abolendo tutti gli ostacoli non tariffari che
ancora intralciavano la libera circolazione delle merci, delle persone e dei
servizi. E occorreva, in secondo luogo, che ogni Paese mettesse se stesso in
condizione di misurarsi, su un piano di parità, con la concorrenza degli altri.
Il completamento del mercato ha fatto qualche progresso, ma è troppo spesso
inciampato nelle resistenze corporative e sindacali di quasi tutti gli Stati
europei. Abbiamo dimenticato lo scandalo provocato dalla direttiva Bolkenstein
sulla liberalizzazione dei servizi e la polemica sull’idraulico polacco,
percepito come una sorta di barbaro che si sarebbe infiltrato nelle nostre
società e avrebbe rubato il pane ai nostri ragazzi? La battaglia per la
competitività, invece, è stata condotta in modo ineguale. Quando si accorse che
le industrie tedesche uscivano dal territorio nazionale per cercare condizioni
meno costose in Europa orientale e nei Balcani, un cancelliere socialista,
Gerhard Schröder, persuase i sindacati a sottoscrivere un accordo sulla
previdenza, sulla sanità e sul lavoro che avrebbe reso la Germania ancora più
produttiva e competitiva di quanto fosse stata negli anni precedenti. Schröder
pagò un alto prezzo: la scissione del partito socialdemocratico e la propria
sconfitta nelle elezioni politiche del 2005. Ma grazie alle sue riforme la
Repubblica federale fu in condizione di cogliere non soltanto le occasioni del
Mercato unico, ma anche quelle offerte dalla Cina e dalle nuove potenze
economiche che si stavano affacciando sui mercati mondiali. Qualche Paese ha
seguito il suo esempio. Altri si sono limitati a sfruttare i bassi interessi
che le banche praticavano in quegli anni per lanciarsi in politiche dissennate,
come quella della edilizia in Spagna. Altri, come la Grecia, hanno nascosto i
loro peccati e vissuto spensieratamente fino a quando la crisi del credito non
li ha costretti a fare pubbliche confessioni. Altri ancora, come l’Italia,
hanno sistematicamente rinviato e diluito tutte le riforme di cui avevano
bisogno per valorizzare i settori più dinamici del loro sistema industriale. Le
coalizioni di Romano Prodi erano un carro in cui le ruote più piccole (quelle
dei massimalisti e degli ultra-ambientalisti) potevano determinare la velocità
delle altre. Quella di Berlusconi finì per dimenticare le promesse che il nuovo
arrivato della politica italiana aveva fatto nel 1994 o approvarne una versione
troppo modesta. La crisi del credito cominciò negli Stati Uniti, ma scoperchiò,
quando sbarcò in Europa, tutte le pentole in cui molti membri dell’Ue avevano
cucinato i loro disgustosi bilanci.
Germania e Grecia. Se
raccontiamo la crisi dell’euro come un’occasione mancata piuttosto che un
disastro preannunciato e inevitabile, è forse più facile comprendere perché la
partita non sia definitivamente chiusa. La reazione, soprattutto nella fase
iniziale, è stata troppo lenta, e la vulgata dominante ne attribuisce la
responsabilità alla Germania di Angela Merkel. Temo che dietro questa tendenza
vi sia soprattutto la ricerca di un alibi. Il governo tedesco ha dovuto tenere
conto del malumore dei suoi elettori, poco disposti a pagare con il loro denaro
i peccati di un sistema clientelare e corrotto come quello della Grecia. E non
ha potuto ignorare le sentenze di un tribunale costituzionale che è disposto ad
approvare ogni ulteriore rinuncia alla sovranità nazionale soltanto se
esplicitamente autorizzata dal Parlamento tedesco. (Spero che tra i critici
della Germania non vi siano anche quelli che denunciano contemporaneamente il
“deficit di democrazia” dell’Unione europea). Non è tutto. La Germania temeva
che una troppo sollecita generosità avrebbe persuaso la classe politica greca a
rinviare, per quieto vivere, le dolorose riforme di cui il Paese ha bisogno per
non ricadere nelle sue vecchie tentazioni. Non è sbagliato, ma vi sono stati
momenti in cui lo stile tedesco è stato troppo casermesco. Alla fine, tuttavia,
la Germania si è resa conto che la crisi della Grecia avrebbe inevitabilmente
contagiato altri Paesi, che i mercati avrebbero continuato a scommettere contro
l’euro e che una gestione troppo rigorosa della crisi si sarebbe ripercossa
come un boomerang, alla fine, anche sulla economia tedesca e in particolare
sulle sue banche, troppo esposte verso i Paesi più deboli dell’Eurozona.
Per superare la crisi occorreva
soprattutto dimostrare ai mercati che l’euro usato in Grecia non era, per gli
altri membri dell’Eurozona, soltanto la moneta dei greci. Occorreva fare
comprendere che gli altri, l’intera Eurozona, l’avrebbero difeso come la moneta
di tutti. Vi sono stati così alcuni importanti passi avanti. Sono nati il “fondo
salva-Stati” (European Financial Stability Facility) e un nuovo organismo
permanente con una dote consistente (European Stability Mechanism). La Banca
centrale europea ha cominciato a comperare le obbligazioni dei Paesi
maggiormente colpiti dalla crisi e ha offerto alle banche dell’Eurozona, per
due volte, l’equivalente europeo di quello che la Federal Reserve americana ha
definito, eufemisticamente, “quantitative easing”, alleviamento quantitativo:
una provvidenziale pioggia di denaro. Queste misure non erano espressamente
previste dagli statuti della Bce, ma la Germania ha chiuso un occhio.
Le vie di uscita. Nessuna di
queste iniziative, tuttavia, ha rotto il circolo vizioso che rischia di
strangolare l’Eurozona e la sua moneta. Il rigore soffoca la crescita
dell’economia. La stagnazione e la recessione diminuiscono il gettito fiscale e
rendono ancora più difficile il rifinanziamento del debito sui mercati
internazionali. I mercati ne prendono nota e chiedono rendimenti più alti sulle
obbligazioni dei Paesi indebitati. Alla fine di questo circolo vizioso il
debito non diminuisce e l’economia non cresce. Per quanto tempo ancora è
possibile andare avanti con un sistema che colpisce, anche se in misura
diversa, tutte le maggiori economie dell’Eurozona, fuor che quella tedesca?
Possiamo accontentarci di rimedi che hanno il paradossale risultato di spaccare
l’Eurozona allargando sempre di più il fossato che separa la Germania dai suoi
partner? Si europuò parlare di Mercato unico se il denaro costa il 6% in un Paese
e zero in un altro? Insieme al peggioramento della crisi, tuttavia, è cresciuta
la consapevolezza di ciò che potremmo fare per uscirne.
Le prime misure. Esiste
anzitutto il Patto fiscale: il trattato che costringe i Paesi dell’euro a
inserire la parità del bilancio nelle loro costituzioni e fissa le condizioni
per eventuali aiuti futuri. Esistono poi sul tavolo dei negoziati nuovi
strumenti possibili. Vi sono anzitutto quelli che servirebbero a mutualizzare
il debito, cioè a dimostrare che il debito della Grecia, tanto per fare un
esempio, è il debito di tutti. Lo strumento principale è quello degli Eurobond,
vale a dire obbligazioni offerte al mercato e garantite collegialmente da tutti
i Paesi dell’Eurozona. Credo gli Eurobond verranno adottati, prima o dopo, ma
la Germania sostiene, non senza ragione, che occorre creare anzitutto una
Unione fiscale (unione dei bilanci), perché è possibile contrarre un debito
soltanto quando il debitore ha un patrimonio personale o aziendale con cui può
rispondere della somma presa a prestito. Dov’è, chiedono i tedeschi, il
patrimonio europeo? Il bilancio comunitario non raggiunge il 2% del prodotto
interno lordo dell’intera Ue e serve in buona parte a finanziare la politica
agricola comune.
Vi sono anche, fra gli strumenti
possibili, le obbligazioni emesse per la realizzazione di progetti europei: i
project bond ripetutamente evocati da François Hollande durante la sua campagna
elettorale per le elezioni presidenziali. E vi è la “golden rule”, proposta dal
governo Monti, che permetterebbe a ogni Paese di non conteggiare nel proprio
debito il costo delle grandi infrastrutture. Ma la proposta più interessante a
me sembra quella dell’Unione bancaria europea. Tutte le banche europee
verrebbero sottoposte a una stessa vigilanza, i criteri verrebbero unificati e
a tutti i depositi bancari verrebbe data una stessa assicurazione garantita in
solido dai governi. Le crisi possono avere anche buoni effetti. Quella
dell’euro ha reso nuovamente pronunciabile una parola – federalismo – che è
stata per molti anni, nei circoli europei, politicamente scorretta. La signora
Merkel ha parlato esplicitamente di “unione politica”. Il ministro delle
Finanze tedesco Wolfgang Schaüble ha parlato dell’elezione diretta del
presidente dell’Unione. Forse un giorno gli storici scriveranno che gli
europei, dopo essersi lungamente attardati sull’orlo del precipizio, hanno
finalmente deciso di scegliere un’altra strada: quella dello Stato federale. (Tratto da Sette/Il Corriere della Sera, 21 giugno 2012)
Sergio Romano
Commenti
Posta un commento