‘I due corpi del papa’: Ratzinger ha restituito unità al pontificato
Il traumatico annuncio del ritiro
del Papa dell’11 febbraio scorso, al di là delle cause e delle conseguenze che
sono state ampiamente discusse e analizzate, ha portato a
compimento il lungo processo di formazione del Papato. La chiave di lettura di
questo processo è l’intrinseca duplice natura del ministero
pontificio che può servire a spiegare il comportamento degli ultimi pontefici e
forse anche quello dei prossimi.
I riferimenti della mia analisi sono Papa Wojtyla e Papa Ratzinger che rappresentano come i due estremi della
concezione del Papato. È stato, infatti, giustamente fatto presente che il
primo ha portato la sua croce di sofferenza sino in fondo non rinunciando al
suo incarico e seguendo in questo la sua coscienza. Nella sua dichiarazione
Benedetto XVI lo riconosce, eppure la stessa coscienza che ha indicato a
Wojtyla di proseguire ha convinto Ratzinger che era il momento di ritirarsi.
Il problema della coscienza mi pare
essere la vera origine dello sgomento dei fedeli cattolici (certo più del
problema di come appellare un papa non più tale e ancora vivente!), ma non la
giusta chiave di lettura degli ultimi episodi vaticani.
In realtà il confronto tra le due
opposte decisioni impone l’utilizzo di un paradigma più ampio. La loro
diversità assoluta nel temperamento e nella visibilità mediatica è solo un
pallido riflesso delle loro opposte concezioni teoriche sulla natura del
ministero pontificio.
Per Wojtyla esso ha ancora una
natura ancipite, sì pratica ma soprattutto mistico-spirituale. Per Ratzinger
invece la separazione viene sanata e l’aspetto spirituale del suo ministero non
può prescindere da quello materiale, anzi ne viene fortemente condizionato.
Ma ora devo chiarire cosa intendo
per natura spirituale del papato, che non è semplicemente la coscienza che il
papa ha, sempre e comunque, di essere la guida di oltre un miliardo di fedeli
cattolici quale rappresentante di Cristo in terra (“il romano Pontefice, quale
successore di Pietro, è il perpetuo e visibile principio e fondamento
dell'unità sia dei vescovi sia della moltitudine dei fedeli”, Lumen Gentium, 23).
Giovanni Paolo II ha inteso in senso
mistico il proprio ministero, sdoppiando il suo essere Papa dalla sua funzione
di Papa. Pur incapace per la malattia di governare, ha continuato a
rappresentare il suo ufficio sino alla fine. Benedetto XVI, invece, ha valutato
diversamente le bufere (Vatileaks, la pedofilia dei preti, le divisioni all’interno
della curia pontificia) e l’opportunità di continuare, lui, a combatterle. Non
ha abdicato, non si è arreso, ha bensì reso il più grande servizio alla Chiesa:
quello dell’umiltà e del sacrificio, dell’ascolto dei segni e della profezia.
Nella teoria dei due corpi del re
(“The King’s Two Bodies”) lo storico del Medioevo Kantorowicz analizza la
formazione nel Medioevo dell’ideale della duplice natura del potere monarchico,
dei suoi due corpi: l’uno destinato a perire, l’altro a perdurare. La natura
divina del re è eterna in quanto tale ma via via incarnata in una figura
concreta. Esattamente quanto accade per il papa.
Ma è legittimo applicare il
paradigma interpretativo di Kantorowicz al Papato?
Alla luce della storia, sì. Il
papato nel Medioevo dal Medioevo in poi (un momento saliente fu il Dictatus papae di Gregorio VII nel 1075)
si andò configurando come monarchia assoluta e anzi fu modello per le altre
monarchie europee: il monarca pontificio possedeva il diritto esclusivo di
riconoscere la legittimità dell’investitura monarchico-imperiale anche al resto
delle dinastie europee!
D’altra parte, il nucleo del
Cristianesimo è l’incarnazione di Cristo e dunque il dualismo
spirituale-temporale non può non risiedere nei suoi massimi rappresentanti (i
vescovi e segnatamente il vescovo di Roma).
Dunque si può dire che
l’affermazione scolastica “papa qui potest dici ecclesia”, l’identificazione
mistica tra papato e Chiesa e la conseguente, speculare concezione della chiesa
come corpo mistico di Cristo, è alla base della monarchia pontificia. Il papa è
‘alter Christus’ e capo della Chiesa.
Kantorowicz rintraccia nel dualismo
di corpo personale e corpo mistico del papa-Chiesa l’origine della “maestà
gemellare” del re:
Here,
at last, in that new assertion of the “lord’s Two Bodies”—in the bodies natural
and mystic, personal and corporate, individual and collective of Christ—we seem
to have found the precise precedent of the “king’s two Bodies.”
Sui danni venuti alla Chiesa per via
delle commistioni tra potere terreno e spirituale per la Chiesa cattolica di
Roma si è detto molto. Non è ormai negabile da nessuno che la frattura apertasi
con Pio IX e il Risorgimento italiano e chiusasi solo nel 1929 con il
Concordato sia stato un provvidenziale, seppur dolorosissimo e spesso cruento
processo di restituzione a Cesare e a Dio del proprio (“unicuique suum”).
Ora, il gesto di Benedetto XVI mi
pare essere proprio l’ultimo capitolo della definizione della tesi monarchica
del papato, nel senso che si riconciliano i due aspetti, per secoli opposti e
incomunicanti, di mistico e corporale, missionario e istituzionale, invisibile
e visibile.
La dinamica delle dimissioni del Papa sono l’exemplum concreto della
parabola del papato che ora può continuare il suo ruolo con una piena e compiuta
autocoscienza dei propri limiti e poteri.
Non vorrei però che si confondessero
le mie riflessioni con la pur a tratti acuta analisi dell’articolo di Scalfari
di domenica 17 febbraio su Repubblica, dove viene invocato un nuovo Gregorio
VII (ma in che termini poi nello specifico non si capisce…!) e si lega la
rinuncia di Benedetto XVI all’incapacità del pontefice di risolvere i gravi
problemi, che ci sono, all’interno della Chiesa cattolica e della Curia
pontificia. Il legame tra l’esistenza di problemi ecclesiastici e le dimissioni
del Papa è palese solo a chi (Scalfari in
primis) ce lo vuole vedere, ma la necessità del nesso è arbitraria.
Questo Pontefice non ha voluto
riaffermare, fallendo, il potere temporale contrapposto a quello spirituale, al
contrario ha voluto risanare il divario tra carne e spirito, istituzione Chiesa
e vocazione spirituale del clero, con buona pace dei laicisti come Scalfari,
che hanno sempre remato contro questo Papa salvo ora trovarlo ‘moderno’ perché
ammette la sconfitta aprendo così ad una nuova era della Chiesa cattolica
(praticamente il preannuncio della sua totale autodistruzione!).
Al contrario del
pensiero di Scalfari, la rinuncia di Benedetto XVI non apre in seno alla Chiesa una
“ferita” difficile a rimarginarsi, ma la chiude dopo secoli, aprendo ad un
naturale continuum istituzionale e
spirituale.
Gianfranco Pellegrino
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