Walter Benjamin sulla bibliofilia e sul collezionismo

Vi propongo un articolo tratto dall'inserto Collezione del Domenicale de Il Sole 24 Ore. Si tratta di un estratto di un saggio dello scrittore tedesco Walter Benjamin sulla bibliofilia. Il testo è pubblicato, in tiratura limitata e con carta Zerkall Bütten, da Heny Beyle, una piccola e preziosa casa editrice

Sto aprendo le casse della mia biblioteca. Già. Dunque non è ancora disposta sugli scaffali, ancora non ravvolge la lieve noia dell’ordine. Né io posso incedere lungo le sue file schierate, per passarle in rivista al cospetto di un benevolo uditorio. Lorsignori non hanno a temere tutto questo. Devo pregarli di seguirmi nel disordine delle casse aperte, nell’aria satura di polvere di legno, sul pavimento coperto di brandelli di carta, tra le pile di volumi appena riportati alla luce dopo due anni di tenebra, per poter in qualche misura condividere fin dall’origine lo stato d’animo, niente affatto elegiaco, teso e ansioso piuttosto, che essi suscitano in un autentico collezionista. Poiché tale è colui che a lorsignori parla – tutto sommato non parlando d’altro che di sé stesso. Non sarebbe forse da presuntuosi enumerare qui, ostentando un’apparente obiettività e spassionatezza, gli esemplari o le sezioni più importanti di una biblioteca, o esporre la storia del suo formarsi, o addirittura la sua utilità per lo scrittore?


Io, comunque, con le parole che seguono miro a qualcosa di più scoperto, di più tangibile: quel che mi sta a cuore è consentire a lorsignori di gettare uno sguardo dentro il rapporto che un collezionista ha con le sue raccolte, uno sguardo dentro il collezionismo, più che dentro una collezione. Che per fare ciò io scelga di basarmi su un esame delle diverse modalità di acquisizione dei libri è del tutto arbitrario.

Un tale criterio, come qualunque altro, è solo un argine contro la piena dei ricordi che si riversa su qualsiasi collezionista quando si occupi dei suoi tesori. Se ogni passione, infatti, confina con il caos, quella del collezionismo confina con il caos dei ricordi. Ma dirò di più: caso e destino, che colorano ai miei occhi il passato, sono tangibilmente presenti anche nell’abituale confusione di questi libri. Cos’altro è infatti, questa raccolta, se non un disordine in cui l’abitudine si è talmente ambientata da farlo apparire ordine? Loro avranno già sentito di persone che si sono ammalate per aver perduto i loro libri, di altre che per acquisirli si sono macchiate di crimini. Qualsiasi ordine è, proprio in questi ambiti, null’altro che lo stare sospesi sopra un abisso. «La sola conoscenza certa» ha detto Anatole France «è quella dell’anno di pubblicazione e del formato dei libri». In effetti, se esiste qualcosa di simmetricamente opposto all’assoluta assenza di regole che caratterizza una biblioteca, è proprio il rigore del suo catalogo.

In tal modo l’esistenza del collezionista si colloca nella costante tensione dialettica tra i poli del disordine e dell’ordine.

Ovviamente essa è legata anche a molto altro: a un rapporto oltremodo enigmatico con la proprietà, sul quale più avanti bisognerà ancora spendere qualche parola. E poi: a un rapporto con gli oggetti che non ne mette in primo piano il valore funzionale, e dunque la loro utilità o fruibilità, ma li studia e li ama in quanto scena, teatro del loro proprio destino. Quel che più profondamente affascina il collezionista è collocare il nuovo acquisto dentro una sfera magica in cui, mentre è percorso dall’ultimo brivido, il brivido del venire acquisito, l’oggetto si immobilizza. Ogni ricordo, pensiero, consapevolezza diventa zoccolo, cornice, piedistallo, cella del nuovo tesoro. Epoca, luogo, bottega, precedente proprietario – tutto questo il vero collezionista lo vede confluire, per ogni pezzo della propria collezione, in una magica enciclopedia la cui intima essenza è il destino di quel suo oggetto.

Qui dunque, in questo spazio conchiuso, è possibile immaginare come i grandi fisiognomi – e i collezionisti sono i fisiognomi del mondo degli oggetti – diventino veggenti Basta osservare come un collezionista maneggia gli oggetti della sua vetrina. Non appena ne prende in mano uno, il suo sguardo ispirato sembra trapassare l’oggetto e perdersi nelle sue lontananze. Fin qui il lato magico del collezionista, potrei dire: la sua visione di vegliardo.  Habent sua fata libelli era forse concepito come un motto sui libri in generale. I libri – dunque La Divina Commedia oppure l’Etica di Spinoza o L’origine delle specie – hanno i loro destini. Il bibliofilo invece interpreta in modo diverso questo detto latino. Per lui ad avere i loro destini non sono tanto i libri in sé quanto i singoli esemplari E dal suo punto di vista il destino più rilevante del singolo esemplare è quello di imbattersi in lui, nella sua collezione. Non esagero dicendo: per il vero bibliofilo acquisire un vecchio libro è farlo rinascere. E qui sta invece la visione del fanciullo, che nel collezionista si intreccia con quella del vegliardo. I fanciulli infatti posseggono, quale proteiforme pratica mai abbandonata, la facoltà di rigenerare l’esistenza. In loro, nei fanciulli, il collezionare è soltanto una delle possibili procedure di rigenerazione, un’altra è il colorare gli oggetti, un’altra ancora il ritagliare, un’altra il decalcare e così via lungo tutta la scala delle modalità infantili di appropriazione della realtà, che va dall’afferrare su su fino al nominare. Rigenerare il vecchio mondo – ecco l’istinto più profondo che sta alla base del desiderio del collezionista di acquisire nuovi pezzi, e per questo il collezionista di vecchi libri è più vicino alle scaturigini del collezionismo di quanto non sia chi si interessa alle novità librarie. E ora qualche parola su come i libri giungano a varcare la soglia di una collezione, a divenire proprietà di un collezionista, insomma: qualcosa sulla storia della loro acquisizione. (…)

Degli acquisti più importanti solo una parte, ovviamente, passa attraverso la visita a un libraio antiquario. I cataloghi svolgono un ruolo molto più considerevole. E per quanto l’acquirente conosca bene il libro che ordina su catalogo: quel preciso esemplare resta sempre una sorpresa e l’ordinazione conserva una dose di azzardo. Vi sono, accanto a cocenti delusioni, anche scoperte esaltanti. Così ricordo di aver ordinato un giorno un libro con illustrazioni a colori per la mia vecchia raccolta di libri per l’infanzia solo perché conteneva delle fiabe di Albert Ludwig Grimm e il luogo di pubblicazione era Grimma, in Turingia. E da Grimma giunse sì un libro di fiabe, pubblicato appunto da Albert Ludwig Grimm. Ma quel libro di fiabe, nell’esemplare ora in mio possesso, era con le sue sedici tavole l’unica testimonianza superstite degli esordi del grande illustratore tedesco Lyser, vissuto ad Amburgo intorno alla metà del secolo scorso. Bene, la mia istintiva reazione alla semplice assonanza tra i due nomi aveva colto nel segno. Grazie a quell’incontro fortuito scoprii altri lavori di Lyser, e precisamente un’opera, Linas Mahrchenbuch, rimasta sconosciuta da tutti i suoi bibliografi, mentre meriterebbe un cenno ben più esauriente di questo – il primo – che ne faccio qui io.

In nessun caso l’acquisto di libri è solo questione di denaro o solo questione di competenza. E perfino le due cose insieme non bastano per creare un’autentica biblioteca, la quale ha sempre un che di impenetrabile e, nel contempo, inconfondibile. Chi compera attraverso un catalogo deve possedere, in aggiunta al denaro e alla competenza, anche un buon fiuto. Data e luogo di pubblicazione, formato, precedente proprietario, copertina, e così via, tutte queste cose devono parlargli e non solo prese aridamente in sé e per sé: devono essere in consonanza tra loro, e dall’armonia e dalla nitidezza di questa consonanza il collezionista deve poter riconoscere se un libro gli si confà o no Altre ancora sono le capacità che gli richiede una vendita all’asta. Al lettore di cataloghi deve parlare il libro da solo e tutt’al più, quando sia nota la provenienza dell’esemplare, il suo ultimo proprietario. Chi voglia intervenire a un’asta deve invece dividere la sua attenzione in parti uguali tra il libro e i concorrenti, e per di più mantenere sufficiente sangue freddo per evitare di accanirsi nella gara, come quotidianamente accade, e – dopo l’ultimo rilancio dettato più dall’amor proprio che dal desiderio di aggiudicarsi il libro – ritrovarsi infine solo, con un prezzo esorbitante da pagare. In compenso va annoverato tra i ricordi più belli del collezionista il momento in cui è accorso in aiuto di un libro mai forse sfiorato dai suoi pensieri, e men che meno dai suoi desideri, solo perché l’infelice se ne stava lì sulla piazza negletto e sconsolato; e, così come nelle fiabe delle Mille e una notte il principe comprava una bella schiava, lo ha comprato per donargli la libertà. Per il bibliofilo, infatti la vera libertà – per qualsiasi libro – sta da qualche parte su uno dei suoi scaffali. (…)

Una sola osservazione mi resterebbe da fare: il fenomeno del collezionismo, perdendo il suo soggetto, perde anche il suo senso. Se rispetto alle collezioni private quelle pubbliche possono essere più accettabili sotto il profilo sociale e più utili dal punto di vista scientifico, è solo nelle prime che agli oggetti è resa piena giustizia. Del resto so bene che per il tipo umano di cui sto qui parlando, e che ai loro occhi ho rappresentato un po’ ex officio, sta per spalancarsi la notte. Ma, come dice Hegel: è solo con le tenebre che la civetta di Minerva spicca il volo. Solo nel suo estinguersi il collezionista verrà compreso.
Walter Benjamin

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