Merkel e l’indispensabile passo di indietro

Angela Merkel dovrebbe dimettersi. Il fallimento delle trattative per la formazione di un nuovo governo tedesco è una sua sconfitta. Pur riconoscendo l’onore delle armi a una cancelliera che ci ha provato per due mesi a mettere insieme ciò che insieme non poteva andare, ovvero cristiano-sociali, cristiano-democratici, ambientalisti e liberali. Era l’unica strada che aveva davanti a sé e questo è stato il suo punto debole. Non è bastata la sua nota capacità di mediazione. Ora però è giusto riconoscere una realtà nella quale Angela Merkel non ha più niente da offrire al proprio partito e, probabilmente, all’intero Paese. Per questo motivo, il modo più onorevole per uscire di scena è farsi da parte. 

Già le elezioni del 24 settembre sono state una montagna enorme per la Cancelliera non abituata ai toni violenti, radicali e a tratti offensivi di un dibattito incattivito dalla destra nazionalista di Alternative für Deutschland e dalla ruvidezza verbale di Martin Schulz. Un’altra campagna elettorale a pochi mesi dall’ultima potrebbe essere fatale alla Cancelliera. Meglio un passo indietro, evitando di fare lo stesso errore del suo mentore Helmut Kohl nel 1998. Anche allora il cancelliere della riunificazione rischiava grosso tanto che Wolfgang Schäuble gli propose di farsi da parte, avrebbe affrontato lui una campagna elettorale durissima da vincere. Kohl non ne volle sentir parlare e perse nettamente contro Gerhard Schröder. Oggi il quadro per la cancelliera è simile, ma per certi versi più pericoloso per la Germania. Una sconfitta di Merkel potrebbe portare ad un successo non tanto di un socialdemocratico ma di una destra estrema che dopo le consultazioni fallite ha due facce: quella più dura di Alternative für Deutschland e quella solo apparentemente più dolce di Christian Lindner (FDP).
Merkel è una combattente, lo è sempre stata a dispetto di un’immagine all’estero che ne fa una tenera Mutti. In realtà ha lottato e vinto all’interno del suo partito e divenne cancelliera in una delle elezioni più difficili (con annessa fase post-elettorale) come quella del 2005. Non è abituata a mollare e probabilmente non lo farà neanche questa volta. Eppure, proprio lo scorso anno, nel 2016, sembrava fosse stanca e decisa a non ricandidarsi per un quarto mandato che è già insolito per la Germania e lo è ancor di più in tempi in cui la politica brucia velocemente molti leader. Alla fine, per l’instabilità internazionale, per mancanza di alternative all’interno del partito, per senso di responsabilità rispetto ad un lavoro che non considerava concluso e per la promessa fatta a Barack Obama, decise di continuare. Una scelta giusta e comprensibile. Ma ora il contesto è improvvisamente cambiato. L’Unione viene dal peggiore risultato dal 1949 e la radicalizzazione della politica tedesca richiede un leader diverso. Farsi da parte significherebbe togliere all’AfD il principale argomento della propria campagna elettorale: l’antimerkelismo

In questa fase di transizione in cui il Presidente Steinmeier cercherà o di far riprendere le trattative per una coalizione Giamaica o per spingere la SPD ad una nuova Grande Coalizione, Merkel pensa di avere carte da giocare, ma in realtà, se si facesse da parte renderebbe tutto più semplice e ne uscirebbe da statista che ha servito il proprio paese per dodici lunghi anni e con un grande senso di responsabilità. Sarebbe l’ultimo capolavoro di una cancelliera a cui la storia darà ragione. 

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