Il futuro dell'Europa


Difendere quest’Europa è diventato sempre più difficile: non credo che si sia perso l’entusiasmo, quello forse non c’è mai stato, almeno nella mia generazione (sono nato nel 1978). Il fatto è che la nascita dell’Unione e l’introduzione della moneta unica non sono stati processi di partecipazione popolare. Ricordate i “festeggiamenti” per l’introduzione dell’Euro? Luci soffuse, poco entusiasmo. Alle elezioni europee, inoltre, c’è sempre stata scarsa partecipazione al voto. Le elezioni di ieri hanno confermato questa tendenza anche se la campagna elettorale è certamente stata più vivace. Dobbiamo “ringraziare” i tanti partiti euroscettici di estrema destra perché hanno effettivamente animato il dibattito pubblico. I nazionalisti hanno triplicato i voti: in Francia, Danimarca, Finlandia e Ungheria la destra estrema è in testa. A questo si aggiungono i risultati comunque discreti degli estremisti in Austria, Grecia e Olanda e, ancora, la vittoria dell’UKIP in Gran Bretagna che però non è esattamente un partito di estrema destra.
In Germania, ottengono un seggio i neo-nazisti della NPD e sette seggi i liberal-nazionali di Alternative für Deutschland. Insomma, dopo le più difficili elezioni del Vecchio Continente, sembra quasi che ci voglia «l’entusiasmo di un bambino di sei anni per rifondare l’Europa» come disse Wolfgang Münchau (Financial Times, 20 maggio 2013).
Ho 35 anni e resto un convinto europeista. Ho cercato di sfruttare molte delle possibilità che l’Europa mi ha offerto: borse di studio, tirocini, esperienze all’estero. Continuo a viaggiare prevalentemente in Europa perché è un continente bellissimo, vario e ricco di cultura; perché è facile farlo grazie all’Euro e all’abolizione dei confini. Non ho l’entusiasmo di un bambino ma la convinzione della ragione. Ma è inutile negare l’evidenza: oggi il progetto europeo è in crisi. Ma, come diceva Winston Churchill, «mai sprecare una crisi». L’Unione Europea deve cogliere la grande occasione offerta dalla storia di rilanciare la sfida dell’integrazione politica. L’Ue è un progetto e in quanto tale è sempre in fieri. Probabilmente non sarà mai qualcosa di compiuto e definito. Però oggi sappiamo che c’è bisogno di un governo europeo, di una politica estera comune e di una disciplina di bilancio. Ma sappiamo anche che tutto questo non sarà sufficiente a ridurre la disoccupazione e il disagio sociale, che restano i problemi più urgenti da affrontare.
L’Europa resta un successo perché grazie ad essa abbiamo migliorato i nostri standard sociali, culturali, economici, infrastrutturali e ambientali. Ma è anche vero che ci siamo talmente tanto abituati all’Europa che non ne vediamo più i benefici, non riusciamo a spiegarne i vantaggi, non sappiamo come e perché conviene essere in Europa. Con le elezioni di ieri ci siamo resi conto che se vogliamo l’Europa dobbiamo crederci e dobbiamo difenderla, perché la democrazia, la libertà e la difesa dei diritti dell’uomo sono un accidente nella storia dell’umanità.
L’avversario da battere è sempre lo stesso: il nazionalismo. Nel Manifesto di Ventotene del 1944, Spinelli, Colorni e Rossi scrivevano che le forze reazionarie avrebbero fatto leva sulla restaurazione dello stato nazionale: «Potranno così far presa sul sentimento popolare più diffuso, più facilmente adoperabile a scopi reazionari: il sentimento patriottico. Per le masse popolari l’unica esperienza politica finora acquisita è quella che si svolge entro l’ambito nazionale, ed è perciò abbastanza facile convogliare, sia esse che i loro capi più miopi, sul terreno della ricostruzione degli Stati abbattuti dalla bufera». Parole attualissime che devono far riflettere perché la posta in gioco, oggi come ieri, è la stessa.
Ho seguito queste elezioni europee prima a Lecce, la mia città, e nelle ultime due settimane a Berlino. Tralascio le ovvie differenze sulla qualità e serietà del dibattito, ma mi ha sorpreso quanta importanza si dia all’identità nazionale, in Italia come in Germania. Esiste ancora oggi una forte esigenza di identificarsi in una bandiera nazionale. Un processo che a me è estraneo. «Non ho mai capito a cosa servono le nazioni – ha scritto lo scrittore tedesco Hans Magnus Enzensberger –. I nazionalisti non sono mai riusciti a spiegarmelo. Da anni mi sento dire che sono un tedesco. Ma non capisco questa enfasi».
Recentemente ho riflettuto molto sull’identità europea, ho pensato fosse più una costruzione intellettuale che reale. Poi mi sono guardato intorno. Io, leccese, dal profondo sud dell’Europa, ero a Berlino, nel profondo nord, in una casa di un ragazzo francese fidanzato con una ragazza polacca. Oltre a noi nella casa si sono alternati parenti dalla Bretagna del proprietario di casa e un signore olandese. Insomma, in circa ottanta metri quadrati era rappresentata quasi mezza Europa. Eravamo uomini e donne, di diverse nazioni, ma tutti europei. Non ho vissuto un fatto straordinario, è comune a tanti, ma mi sono venute in mente le parole, sempre di Hans Magnus Enzensberger, sulla ricerca di un’identità definita. Alla domanda se esistesse un’identità europea lo scrittore rispose: «Ma perché le persone si preoccupano tanto dell’identità? Mi sento prima di tutto un uomo, poi un franco, vengo dalla tradizione cattolica di sinistra, poi sono un tedesco e anche un europeo. E ancora un poeta. Tutto questo non si può riassumere in una sola parola. Per questo lascerei da parte questa discussione eterna sull’identità».
Durante il mio soggiorno berlinese sono andato a vedere una mostra alla Willy-Brandt-Haus sulla prima guerra mondiale. Poi ho visitato le carceri comuniste della ex Germania dell’Est. E sono andato a vedere anche una mostra sui profughi che cercarono di scappare dalla Germania Est. Ho riflettuto sull’anno 2014. Un anno ricco di ricorrenze fondamentali per la storia europea. In Germania lo chiamano Schicksaljahr (letteralmente, anno del destino). 100 anni dallo scoppio della prima guerra mondiale, 75 anni dallo scoppia della seconda guerra mondiale, 70 anni dalla pubblicazione del Manifesto di Ventotene, 25 anni dalla caduta del Muro di Berlino. Ricordare queste ricorrenze non risolverà nessuno dei grandi problemi dell’Europa ma riflettere su dove eravamo e su dove siamo è da stimolo per rilanciare e difendere il progetto europeo. (Pubblicato su SuccedeOggi, 26 maggio 2014)

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