I "prigionieri" del Tacheles


Tacheles: parlare chiaro. È questo il nome d’origine yiddish, scelto nel 1990 dal collettivo di artisti berlinesi, durante l’occupazione che portò alla trasformazione di un importante edificio della capitale in un centro culturale sperimentale giovanile.
Sono passati ventidue anni da allora e il Tacheles, con i suoi trenta ateliers, è diventato una delle principali attrazioni del quartiere Mitte, ospitando concerti ed esposizioni di artisti provenienti da tutto il mondo ma, il futuro dello stabile non è ancora un argomento su cui si possa parlare chiaramente.
Nel 2008 è, infatti, scaduto il contratto con Fundus, il gruppo di investimento che nel 1998 aveva acquistato l’area, concedendone gli spazi per una cifra simbolica di un euro.
Il primo tentativo di sgombero dei locali, nell’aprile del 2011, si è concluso con la chiusura di alcune sale, tra cui quella destinata alle proiezioni.
Alla base della decisione di chiudere la galleria, ci sarebbe l’intenzione di trasformare l’area in un centro commerciale. Un progetto che sembra riportare l’edificio verso la sua destinazione d’uso originale, rendendo quanto mai attuali le critiche di chi, già nel 1908, lo aveva definito “una delle prime cattedrali del consumo”.
Mentre molti artisti celebri hanno dato inizio ad una manifestazione davanti all’ingresso della galleria, in tanti si chiedono se sarà possibile salvare il Tacheles dalla Gentrification, quel processo di commercializzazione e modernizzazione che caratterizza tristemente Berlino e che ha portato alla quasi scomparsa del Muro.
Tra loro spicca la figura di Petrov Ahner, noto fotografo berlinese che, sul suo blog (www.isupporttacheles.blogspot.com) raccoglie le immagini di chi si è fatto fotografare reggendo la scritta “I support Tacheles”. Ed ancora: quella di Alexander Rodin, tra i più importanti pittori bielorussi contemporanei, poco cortesemente invitato ad uscire dal Tacheles nel corso di una sua mostra, da alcuni uomini della Private Security, assunta dagli avvocati della Hsh Nordbank. È discutibile, inoltre, la confisca dei quadri dell’autore: tante le lettere e le e-mail inviate per esprimere indignazione e solidarietà verso l’artista.
La protesta si è presto spostata dalle piazze cibernetiche a quelle di Berlino. Una manifestazione pacifica, bianca. Come il colore delle 170.000 firme appese di fronte al Municipio Rosso il ventuno marzo scorso.Una mobilitazione globale che sembrava esser stata vana quando, il giorno seguente, sono stati chiusi gli ingressi per i visitatori.
Chi si trovava all’interno per proteggere l’arte è rimasto imprigionato nell’edificio.
Ad intervenire in loro difesa è stato un giudice tedesco, Holger Schwemer, annullando lo sgombero e restituendo la galleria agli artisti.
E mentre sul destino dell’arthouse ancora tanto si discute, resta solo da aggiungere un dettaglio.
Prima di quelli della Hsh Nordbank, c’erano stati altri prigionieri bloccati all’interno del Tacheles: quelli di Hitler durante la Seconda Guerra Mondiale.
Dovrebbe essere questa la lezione da imparare. Eliminare i simboli del passato porta a commettere gli stessi gravi errori.
Rachele Caracciolo

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