In memoriam del filosofo Alfred Schmidt

Alfred Schmidt
Poco tempo fa, intervistato sul perché uno studente dovesse iscriversi alla facoltà di filosofia, Alfred Schmidt rispondeva: «Lo studente deve sapere innanzitutto che la filosofia è un rischio». Nonostante la sua risposta ironica, direi quasi beffarda, Schmidt non era certo un uomo sfiduciato né nella sorte né nelle capacità della filosofia. La natura lo aveva dotato di un robusto acume intellettuale e di un’indole vivace, che ben si esprimevano nella sua imponente figura: dall’alto della sua statura e dalla sua possente mole sembrava infatti irradiarsi tutta l’energia positiva di un uomo gioviale e amabilmente comunicativo.
Ne ho il ricordo vivido e luminoso che mi lasciò il nostro primo incontro, fatto nel suo studio, al quinto piano dell’austero quanto monumentale Institut für Philosophie dell’Università J. W. Goethe di Francoforte sul Meno, nel 2007. Allora ero assieme al mio amico e collega Davide Ruggieri, e ricordo ancora l’imbarazzo di noi due, giovani ricercatori alle prime armi, nel trovarci nel sancta sanctorum della Scuola di Francoforte, al cospetto dell’allievo prediletto di Max Horkheimer. Schmidt, assieme al suo collaboratore, il sorridente Michael Jeske, ci accolse nel suo studio con calorosa ospitalità, e ci raccontò del suo amore per l’Italia e per “la bella Lecce”, che conosceva già e che ricordava con piacere. Ci fece sedere sul “divano di Horkheimer”, poi, mostrandoci i suoi numerosi lavori sul maestro e su Adorno, su Feuerbach e Goethe, su Marx e su Schopenhauer (per citarne alcuni) ci parlò della Sendung illuministica della teoria critica: essa era nata come una forma di marxismo eterodosso, come una scomoda eresia all’interno del marxismo; si era liberata delle incrostazioni ideologiche veteromarxiste che la costringevano nel binomio Bau-Überbau e si era aperta alla comprensione del rapporto dinamico e vicendevole fra società ed economia, fra idealità e rapporti di forza.
Con il tempo, Schmidt si era sempre più interessato alla sociologia. Nel segno di questo suo nuovo interesse, Schmidt successe alla cattedra di Jürgen Habermas, all’inizio del 1972, e insegnò Filosofia e Sociologia, sino alla fine degli anni novanta. Ma dopo il pensionamento, il professore emeritus non si era concesso una vita ritirata, non si era sottratto allo studio e alla ricerca, ma continuava a scrivere e a tradurre, a tenere conferenze e colloqui sulla teoria critica anche con giovani studenti, financo con due timidi ricercatori italiani che incespicavano qualche risposta, torturando il loro povero tedesco.
Alfred Schmidt era un uomo disponibile al dialogo e sempre ben disposto verso gli altri. Forse questa sua disponibilità gli proveniva dalla sua formazione. Infatti, era giunto alla prestigiosa cattedra attraverso un brillante percorso di studio e di ricerca. Era nato il 19 maggio del 1931, da una famiglia medio-borghese; il padre era un semplice meccanico di Berlino. Da studente si era fatto notare per le sue doti intellettuali e aveva intrapreso lo studio della storia con Otto Vossler, si era poi interessato alla letteratura classica e inglese seguendo il magistero di Helmut Viebrock e aveva infine completato la sua formazione attraverso la filosofia e la sociologia. Il suo talento e il suo impegno avevano conquistato la simpatia e l’apprezzamento da parte di Horkheimer, che divenne il suo Doktorvater, e con il quale si addottorò con una dissertazione sul Begriff der Natur bei Karl Marx, pubblicata nel 1962 nella collana del prestigioso Institut für Sozialforschung e poi in Francia per i tipi della Gallimard. Già in questo sua primo studio, Schmidt intendeva la teoria critica alla luce di una storicità (Historizität) che, in continuità con Horkheimer, doveva riprendere la tradizione dell’Illuminismo francese. Si trattava di una storicità che però si doveva continuamente confrontare con la realtà materiale e con la natura, con le esigenze umane. Un interesse, questo,  che lo aveva portato a interessarsi prima a Feuerbach e poi a Schopenhauer. Schmidt avvicinava il filosofo del Mondo a Marx, facendo incontrare i due pensatori nell’analisi della miseria dell’esistenza umana e nella comune fondazione laica di un’etica della solidarietà.
Come il maestro Horkheimer, anche Schmidt aveva scoperto in Schopenhauer il fine ricercatore del „malum metaphysicum“, colui che si era posto di fronte al problema della morte e del nulla armandosi titanicamente della sola forza dell’intelletto, senza ricorrere all’intervento di entità metafisiche ultraterrene. In questo senso, Schmidt coniugava la lezione di Marx e di Schopenhauer all’umanesimo goethiano, proponendo un’etica della solidarietà laica e facendosi promotore di una rinnovata teoria critica, basata sulla storia materiale delle idee. Ma, in quanto erede della filosofia schopenhaueriana e della Frankfurter-Schule, Schmidt era ben lungi dal credere ad una “via della redenzione” del mondo, al fato o al disegno teleologico-escatologico della filosofia e della religione. Era piuttosto propenso a credere schopenhauerianamente alla “lotta per la vita” e al ruolo della filosofia come maestra di disinganno.
Il grande erede della Scuola di Francoforte non si lasciava sedurre da tentazioni consolatorie e da facili metafisiche. Ed è per questo che, nel chiudere questa mia breve testimonianza, mi piace ricordare Schmidt, citando un suo motto dallo spirito schopenhaueriano, con il quale spesso, con la solita ironia, chiudeva i suoi colloqui: La filosofia non deve essere una dolce metafisica, essa deve esprimere spietatamente il negativo [Philosophie darf keine süßliche Metaphysik sein, Sie muss gnadenlos das Negative aussprechen].

Fabio Ciracì




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